lunedì 6 ottobre 2014

COMING OUT #02 - Akira Toriyama andrebbe licenziato da Square-Enix


Bentornati a COMING OUT, la rubrica che non vi piace leggere, perché contiene verità che non vorreste sentire. La confessione di oggi riguarda un autore che potremmo definire iconico, forse uno dei nomi giapponesi più noti in Occidente, a parte quello del più costoso sarto giapponese (Tekucho Sumisura, per chi non lo sapesse). Akira Toriyama è nientemeno che il papà di Dragonball, un manga che dire che ha fatto storia è dire poco. Eppure oggi sono qui per tirargli le orecchie, in un post dal titolo volutamente provocatorio, stile Coming Out.




Siamo negli ultimi anni del secondo millennio. I lately 90s scorrono lungo la mia infantile pelle tra gli Street Sharks, i Pokémon e Crash Bandicoot. E Dragonball, ovviamente.
Non ho memoria di quando ho iniziato a guardare Dragonball, non ricordo un giorno in cui mi sia chiesto chi fosse Goku o quel ragazzino senza capelli con sei puntini sulla fronte e una passione smodata per la morte. Probabilmente ha sempre fatto parte della mia vita, sin dall’ultimo trimestre di soggiorno nell’utero materno.


Gli anni passano, e dopo 212 volte che la serie totale è stata riproposta su Italia 1, posso dire di conoscere a memoria ogni risvolto della trama, dall’inizio alla fine. Vado alle elementari, parlo con i miei compagni di classe, parlo con Catoblepa, parlo con la mia prima cotta, di Dragonball.
No, non è Amarcord, è un post di SpazioTivo.
Comunque, Dragonball è entrato così prepotentemente nella vita dei bambini nati negli anni 90 che è ormai assodato, nelle loro menti, come il fatto che uscire con l’ombrello faccia automaticamente smettere di piovere. A quel punto, un giorno casuale della terza elementare, decido quindi di lasciarmi Dragonball alle spalle e continuare con la mia vita. Oddio, l’ho fatta più drammatica di quanto in realtà fosse, diciamo che me ne sono dimenticato.


Poi, negli anni delle medie, sul retro di una rivista di videogiochi vedo Goku con la bandana e una spada.


“Mmh, ma questi personaggi li ho già visti… Dragon Quest? Meh, sembra Dragonball, però l’ambientazione è diversa… Oh vabbè, mi faccio un panino”. Alle medie ero grasso.
La cosa sembra esaurirsi lì, finché, qualche mese dopo, arrivo a completare una sorta di “tessera fedeltà” di un negozio di videogiochi vicino a casa mia, che mi dà diritto a portarmi a casa, oltre all’ultimo gioco comprato, anche un gioco aggratise. E mi casca l’occhio su Dragon Quest. Quel Dragon Quest che avevo visto sul retro di quella rivista di videogiochi. Quel Dragon Quest con Goku con la bandana.
Massì.


Inserisco il gioco, ma solo dopo essermi sufficientemente trastullato con l’acquisto che mi ha fatto completare la tessera (Ape Escape 3, capolavoro del mondo), e riconosco delle meccaniche di un gioco che amo: Final Fantasy. Come posso non amare Dragon Quest? Non posso, infatti.
Il caso vuole che Dragon Quest VIII fosse uno dei migliori J-RPG di due generazioni fa, difficile da non apprezzare: vasto, difficile, appassionante, vasto, pieno di cose da fare, vasto. E, in più, questo design che mi ricorda Dragonball. Ma ehi, siamo alle medie, l’Internet sta cominciando a bussare alle porte della nostra produttività, mi bastano due click e scopro questo nome: Akira Toriyama, autore di Dragonball e, ovviamente, del design di Dragon Quest.

Vi ricordate quando vi dicevano "Tutto quello che vedete è esplorabile" ed era vero?
Mi spolpo il gioco e decido, ancora una volta, di salutare definitivamente Toriyama e proseguire con la mia vita. Di nuovo, la scena è stata in realtà molto meno drammatica.
Con gli anni il mio interesse verso il mondo videoludico si accresce e, oltre alle riviste cartacee (che abbandonerò poco dopo l’inizio delle superiori) inizio a seguire alcuni siti di notizie su videogiochi (anche se il mio preferito resta SpazioTivo). Sono gli anni del Nintendo DS e dei remake dei primi Dragon Quest, appunto, su DS. Sfoglio una rivista e vedo, stavolta, un incrocio tra Goku e Trunks, con i capelli lunghi.


Solo allora scopro che il Dragon Quest che avevo giocato anni addietro su PS2 era l’ottavo, e solo allora scopro che Akira Toriyama è il designer di ogni capitolo della saga. Per anni, sulle riviste e sui siti specializzati, non faccio che vedere

di nuovo Goku, con Bulma e Gohan sullo sfondo,

Gohan e Nappa sullo sfondo,
 
DI NUOVO GOHAN, ma anche il Maestro delle Tartarughe.
E finisco per dirmi oh, ANCHE BASTA.
Ma il culmine arriva nel 2012, anno della fine del mondo e della fine dei miei rapporti con Dragon Quest.
Vacanza con i miei, per fronteggiare la settimana di noia che mi si prospetta, decido di investire 20 euro in qualcosa per passare il tempo.


Ancora oggi non so perché abbia scelto Dragon Quest IX. Ricordo che la mia intenzione iniziale era prendere Golden Sun, ma non l’avevo trovato. Mi sono detto “Oh, alla fine è pur sempre una delle migliori saghe di J-RPG in circolazione, fottesega della grafica”. Ma, ahimè, non è finita bene. Maledetto Toriyama.
Perché in DQIX puoi creare il tuo personaggio, ma si tratta di una libertà illusoria: per quanto tu ti sforzi, per quanto tu possa cercare di scegliere il naso più particolare o l’acconciatura più eccentrica, il tuo protagonista assomiglierà inevitabilmente a Goku o a Trunks. O a qualsiasi altro Sayan. O a Bulma se si tratta di una donna.
Oltre a questo, scopro ben presto che persino i mostri SONO SEMPRE GLI STESSI DA DRAGON QUEST VIII, sempre quei fottuti slime e quei maledetti cavalieri seduti su una palla di gomma, gli scheletri e le pozze d’acqua verde. La sensazione è quella di non aver mai smesso di giocare a Dragon Quest VIII. Stesso sistema di battaglia, stessi personaggi, stessa ambientazione.


Dragon Quest è una grande recita inscenata da Goku, Trunks e Bulma, che cambiano parrucca 10, 100, 1000 volte durante la messa in scena. Lo devo dire? E allora lo dico: ho abbandonato Dragon Quest IX per la grafica. Fischi, insulti, pomodori.
Perché Akira Toriyama avrà anche uno stile unico e bellissimo, ma quello è e resterà lo stile di Dragonball. Forse proprio perché così unico e riconoscibile, finisce per essere dannatamente pesante e indigesto.
Ma allora c’è da risollevare una delle più dibattute questioni di filosofia videoludica: quanto conta la grafica in un gioco?
Io sono sempre stato convinto che anche l’occhio vuole la sua parte, ma che questo non significa che tale “parte” vada cercata nel fotorealismo. Personalmente, ho sempre apprezzato giochi che, invece di, e perdonate la rima, puntare su un livello di realismo da autoerotismo (che finisce per essere obsoleto nel momento esatto in cui il gioco viene pubblicato), offrissero uno stile grafico originale e riconoscibile. Ma cosa succede quando lo stile non funziona? Beh, per quanto la cosa possa essere superficiale, è dura continuare, e non biasimo chi abbandona. Nel caso di Dragon Quest, la colpa è certamente anche quella di essere rimasto sostanzialmente uguale a se stesso, con un sistema di battaglia che, francamente, per quanto mi riguarda comincia a sentire il peso dell’età.


Mi rendo conto che, dopo 26 anni di Dragon Quest, cambiare stile grafico sarebbe una mossa suicida di dimensioni pericolosissime. Ormai Toriyama È Dragon Quest, e Dragon Quest È Toriyama. Nei forum vedo ancora gente hypata dal prossimo capitolo che scrive “Bello, mi piace lo stile di Toriyama”. Lecitissimo. Del resto, non venderebbe così tanto se a nessuno piacesse lo stile. Ma per quanto mi riguarda, giocare a Dragon Quest è come guardare un cartone animato o un film straniero e riconoscere la voce di Pino Insegno nel doppiaggio. Basta.

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